In termini generali, si può sostenere in capo ai dipendenti incombe un obbligo di denuncia dei reati perseguibili d’ufficio, come previsto dall’art. 362 c.p. Ma chiariamo meglio attraverso un esempio.
Prendendo come esempio una società pubblica gestore del servizio idrico integrato e nello specifico l’eventuale rilevamento in entrata di valori di sostanze inquinanti superiori rispetto ai limiti tabellari, i quali non mutino all’esito del processo di depurazione, bisogna innanzitutto inquadrare la situazione giuridica di riferimento.
La Parte III del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, reca «Norme in difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche». L’obbiettivo principale è – molto intuitivamente – quello di prevenire e ridurre l’inquinamento delle acque e attuare il risanamento dei corpi idrici contaminati.
Quanto ai dipendenti della società che gestisce il servizio idrico integrato, non vi sono dubbi sul fatto che siano da considerarsi «incaricati di pubblico servizio», ai sensi dell’art. 358 c.p., in ragione della rilevanza pubblicistica che assume il servizio svolto dalla ditta per cui lavorano.
Infatti, può definirsi “servizio pubblico” l’attività diretta a soddisfare finalità pubbliche, che sono quelle perseguite dallo Stato, anche attraverso l’iniziativa di altri enti o di soggetti privati. In termini generali, si può sostenere che – essendo, quindi, incaricati di pubblico servizio – in capo ai dipendenti della società che gestisce il servizio idrico integrato incombe un obbligo di denuncia dei reati perseguibili d’ufficio, come previsto dall’art. 362 c.p.
Tale onere può dirsi assolto nel momento in cui venisse sporta una denuncia contro ignoti per l’inquinamento rilevato “a monte”: ciò dovrebbe reputarsi sufficiente per addivenire a un giudizio di irresponsabilità penale dei dipendenti, nel caso in cui non vi fosse nessuna certezza in ordine all’identità dell’autore dell’illecito. Infatti, a seguito di tale notitia criminis, spetterebbe alle competenti Autorità l’effettuazione dei controlli anche sulle acque in uscita (dall’impianto di depurazione) e sui valori in queste riscontrabili.
Tuttavia, qualora l’inquinamento “a valle” dipendesse da un malfunzionamento del depuratore, ovvero da un’incapacità dello stesso di purificare i liquidi contaminati, di cui il gestore del servizio fosse consapevole, si sarebbe di fronte a un’ulteriore fattispecie penalmente rilevante – caratterizzata dall’elemento soggettivo del dolo in capo al gestore stesso – e che, come tale, deve essere denunciata dall’incaricato di pubblico servizio che ne venisse a conoscenza durante lo svolgimento delle sue funzioni.
A confermare questa conclusione, rafforzandone la validità, interviene anche l’art. 40, comma 2, c.p., a mente del quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Pertanto, l’incaricato di pubblico servizio (investito dell’obbligo di denuncia di cui all’art. 362 c.p.) che, presa conoscenza di un reato (nell’esercizio delle sue funzioni, o a causa di esse), non ne abbia immediatamente notiziato la polizia giudiziaria oppure il magistrato requirente e abbia, altresì, omesso il doveroso comportamento positivo (impedimento dell’illecito), che poteva materialmente attuare, rischia di vedersi contestare – oltre al reato proprio di omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio – lo stesso fatto criminoso non denunciato, in concorso – ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. – con gli autori principali.
Analizzando nel dettaglio la disciplina prevista dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e concentrandosi sulla figura del gestore dell’impianto di depurazione, si evince che viene confermato il duplice sistema sanzionatorio (amministrativo e penale) a tutela delle risorse idriche, già previsto nel d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
Nello specifico, gli illeciti amministrativi più significativi riguardano il superamento dei valori-soglia di emissione (fattispecie che interessa ai fini della presente disamina), gli scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie senza autorizzazione – ovvero con autorizzazione scaduta, sospesa o revocata –, nonché la violazione delle prescrizioni autorizzatorie.
La normativa ambientale ha, altresì, introdotto una circostanza attenuante a effetto speciale, la quale consente di ridurre le sanzioni – sia quelle penali, che quelle amministrative – dalla metà a due terzi, nel caso l’autore abbia provveduto all’integrale riparazione del danno prima del giudizio penale o dell’emissione dell’ordinanza di ingiunzione (art. 140 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).
Rimane aperto in dottrina il dibattito circa l’incongruità del suddetto dovere di denuncia della conoscenza di un reato ambientale con il correlativo diritto alla libertà dalle autoincriminazioni ex art 24 co. 2 Cost.
Vi sono alcune fattispecie in cui i dati relativi alla gestione ambientale che l’azienda deve comunicare alla pubblica amministrazione sono suscettibili di essere valutati quali vere e proprie notizie di reato e, come tali, idonei a fondare l’avvio di un procedimento penale (ad esempio, i dati desumibili dai registri di carico e scarico, la comunicazione obbligatoria dell’evento di contaminazione del sito ai fini della bonifica).
Si pone la questione se tali ipotesi siano in contrasto con il principio della cd. libertà dalle autoincriminazioni costituente espressione del diritto di difesa sancito dall’articolo 24, comma 2, della Costituzione per il quale nessuno può essere obbligato ad ammettere la propria responsabilità penale ed autodenunciarsi.